giovedì 24 ottobre 2013

IL DAIMOKU : QUANTO,COME E PERCHE'

«Non c'è felicità più grande per gli esseri umani che recitare Nam-myoho-renge-kyo. Il sutra afferma: "Le persone lì (nella mia terra) sono felici e a loro agio". Felici e a loro agio sta a indicare la gioia che deriva dalla Legge» (SND, 4, 157). Con queste parole inizia il Gosho Felicità in questo mondo, e non sono pochi coloro che ne hanno tratto un grande incoraggiamento nei momenti difficili. Come i semi del grano sotto la neve, anche il nostro Daimoku a volte sembra non sortire alcun effetto e vediamo soltanto la neve sui campi senza accorgerci che il seme si sta preparando a germogliare: quando sarà il momento giusto, piccole foglioline verdi si affacceranno dal terreno e in estate avremo il nostro raccolto. «Un albero spoglio non è mai veramente spoglio - scrive il Daishonin - perché all'arrivo della primavera si ricopre di gemme. Un campo brullo non è mai veramente tale, infatti con l'arrivo dell'estate tornerà fresco e verde» (SND, 7, 90). È quindi importante stabilizzare la nostra pratica recitando una base costante di Daimoku, pronti a incrementarlo quando ne sentiamo l'esigenza o le circostanze lo richiedono, senza mai lasciarci scoraggiare quando le cose sembrano andare troppo male nè esaltare quando sembra andare tutto per il meglio. Ma sul Daimoku le domande potrebbero essere molte: quanto recitarne, come recitarlo, a cosa pensare mentre recitiamo... ad alcune di esse tenteremo di dare una risposta, premettendo però che non bisogna fidarsi troppo delle regoline preconfezionate ma imparare ad ascoltare anche il proprio cuore, che in definitiva rimane uno dei nostri migliori maestri. Che domanda difficile! Quale consiglio dare a chi ci rivolge una domanda del genere? Una possibile risposta potrebbe essere di recitare Daimoku finché non ci si sente soddisfatti, ma è pur vero che vi sono momenti in cui andiamo davanti al Gohonzon sentendoci "già" soddisfatti e altri in cui dopo molte ore di Daimoku avvertiamo ancora dentro di noi la sofferenza che ci aveva spinto a recitare. Di sicuro, come detto prima, è importante mantenere una quantità di Daimoku quotidiana che, in prima approssimazione, di solito si usa indicare in un'ora al giorno. Ma, in ultima analisi, nessuno è miglior giudice di noi stessi: ciascuno, attraverso l'esperienza, arriva a capire la quantità di Daimoku che gli permette di mantenere una condizione vitale elevata nel corso di tutta la giornata. Da questo deriva direttamente un consiglio che era molto frequente udire da Eiichi Yamazaki, il precedente responsabile europeo della SGI: recitare più Daimoku possibile alla mattina. Fa parte del comune buon senso non sacrificare alla recitazione del Daimoku nessuna delle cose importanti della nostra vita: il lavoro e la famiglia innanzi tutto, ma anche le relazioni sociali, le amicizie, le proprie passioni. Nessuno dovrebbe mai diventare un "professionista della fede". Può accadere, però, che quello che ci troviamo ad affrontare richieda un impegno nella recitazione molto maggiore del normale; di fronte a un grave problema, a una situazione apparentemente senza via d'uscita, può essere necessario rinunciare - o meglio, rimandare a tempi più adatti - tutta una serie di attività collaterali importanti, ma non essenziali. Ricordandoci, però, che una situazione eccezionale non può rappresentare la norma. Come recitare Daimoku? Recitare Daimoku non significa implorare qualcuno di concederci qualcosa né significa lamentarsi o piangerci addosso per le nostre presenti circostanze. Il Daishonin rivolge a Shijo Kingo queste parole: «[Marishiten] ti ha reso abile nel maneggiare la spada, mentre Nichiren ti ha donato i cinque caratteri di Myoho-renge-kyo» (SND, 4, 194). E in un'altra lettera: «La potente spada del Sutra del Loto deve essere brandita da un coraggioso nella fede» (SND, 4, 150). Analogie che non lasciano spazio a interpretazioni: più che a una noiosa litania, il nostro Daimoku dovrebbe ricordare una spada leggera, robusta e affilata con la quale affrontare coraggiosamente la vita. E non è neanche necessario porsi davanti al Gohonzon in una posizione subordinata: d'accordo, siamo comuni mortali con le nostre debolezze e i nostri difetti, ma il Daishonin ammonisce: «...se reciti e credi in Myoho-renge-kyo, ma pensi che la Legge sia al di fuori di te, stai abbracciando non la Legge mistica ma un insegnamento imperfetto [...] quando invochi la Legge e reciti il Sutra del Loto, devi essere profondamente convinto che Myoho-renge-kyo è la tua stessa vita» (SND, 4, 4). E ancora: «Non cercare mai questo Gohonzon al di fuori di te» (SND, 4, 203). Daisaku Ikeda suggerisce di recitare con il ritmo di un cavallo al galoppo, un'immagine ricca di potenza, leggerezza e armonia, e dice che il nostro Daimoku dovrebbe generare gioia in chi ascolta. E cosa dire dei pensieri? Non è sempre facile avere ben chiari i nostri obiettivi durante la recitazione: spesso andiamo davanti al Gohonzon non per chiedere qualcosa, ma semplicemente per capire cosa vogliamo. E anche quando siamo certi di quello che desideriamo, chi ci garantisce che il nostro desiderio sia dettato dalla natura di Budda e non dal nostro stesso karma? Non importa, recitando Daimoku - sinceramente, non per pura formalità - attiviamo il Budda dentro di noi e lui conosce la risposta e spesso questa è migliore di quella che avremmo immaginato, anche se magari un po' diversa. Non dobbiamo neanche preoccuparci troppo se, mentre tentiamo di concentrarci, molti pensieri affollano la nostra mente distogliendoci dallo scopo della nostra recitazione: quando ce ne rendiamo conto tentiamo di ritrovare la concentrazione. Josei Toda insegnava che un "esercizio" di questo genere ci porterà naturalmente a imparare a concentrarci sul Go­honzon. Per cosa recitare Daimoku? Quali sono infine gli obiettivi "degni" di essere portati davanti al Gohonzon? Qualunque obiettivo va bene, dice ancora Daisaku Ikeda nei dialoghi con i giovani raccolti nei due volumi I protagonisti del XXI secolo (Ed. Esperia). Andando avanti, anche la qualità del desiderio tenderà naturalmente a evolversi e i nostri obiettivi saranno sempre più vicini a quelli ai quali il Budda Shakyamuni, Nichiren Daishonin e moltissimi loro discepoli hanno dedicato la vita. La parte del sedicesimo capitolo del Sutra del Loto che recitiamo ogni giorno, Jigage, termina con queste parole: «Questo è il mio pensiero costante: / come posso far sì che tutti gli esseri viventi / accedano alla via suprema / e acquisiscano rapidamente il corpo del Budda». Non è necessario né utile far finta di avere nobili ideali se nel cuore non li sentiamo "nostri", ma approfondendo la fede, la pratica e lo studio possiamo cominciare a percepire che l'obiettivo di kosen-rufu racchiude in sé anche ogni nostro desiderio, come un milione di euro contiene anche un singolo euro, che pensare di poter diventare felici indipendentemente dall'ambiente che ci circonda è una pura illusione, come insegna Nichiren quando scrive: «Se vi preoccupate anche solo un po' della vostra sicurezza personale, dovreste prima di tutto pregare per l'ordine e la tranquillità in tutti e quattro i quartieri del paese» (SND, 1, 43). Per questo motivo si dice che la pratica si compone di "pratica per sé" e "pratica per gli altri", e sempre per questo motivo la Soka Gakkai, in accordo con l'insegnamento del Daishonin, insegna che shakubuku, ovvero introdurre altre persone al Buddismo, dovrebbe essere una parte integrante della pratica quotidiana. Questo, però, sarà argomento per altri articoli. a cura di Stefano Niccoli (SITO I.B.I.G)

martedì 22 ottobre 2013

PRINCIPI FONDAMENTALI

Nam-myoho-renge-kyo a cura di Alessandra Fornasiero La recitazione di Nam-myoho-renge-kyo è la pratica buddista istituita dal Daishonin per condurre tutte le persone all'Illuminazione. Dopo aver approfondito le diverse scuole buddiste dell'epoca alla luce della verità alla quale egli stesso si era risvegliato, Nichiren giunse alla conclusione che l'unico insegnamento in grado di far ottenere la Buddità alle persone comuni nell'Ultimo giorno della Legge era contenuto nel Sutra del Loto. Il 28 aprile del 1253 proclamò per la prima volta la grande Legge di Nam-Myoho-renge-kyo di fronte a una piccola folla di persone riunite al tempio Seicho-ji. Da quel giorno la sua vita fu una lotta impavida per propagarne i sette caratteri, attraverso un succedersi ininterrotto di difficoltà e persecuzioni. Ne Il conseguimento della Buddità in questa esistenza, inviato due anni dopo a un suo discepolo, Nichiren Daishonin scrive: «Se vuoi liberarti dalle sofferenze di nascita e morte che sopporti dal tempo senza inizio e ottenere sicuramente la suprema Illuminazione in questa esistenza, devi cogliere la mistica verità che è originariamente inerente a tutti gli esseri viventi. Questa verità è Myoho-renge-kyo. Di conseguenza recitare Myoho-renge-kyo ti permetterà di cogliere questa mistica verità innata in tutti gli esseri viventi» (RSND, 1, 3; cfr. SND, 4, 3). "Liberarsi dalle sofferenze di nascita e morte sopportate dal tempo senza inizio" è la questione centrale dell'esistenza umana e lo scopo originario di ogni religione. L'insegnamento istituito dal Daishonin si distacca da quelli precedenti perché rivela all'interno della vita dell'individuo l'illimitato potere per risolvere tutte le sofferenze al livello fondamentale. Il nome della Legge Il primo passo compiuto dal Daishonin per aprire questo grande sentiero dell'Illuminazione fu di "chiamare per nome" la Legge mistica. Per far sì che le persone potessero percepire e concretizzare nella propria vita la «mistica verità innata in tutti gli esseri viventi», Nichiren le diede il nome di Myoho-renge-kyo. Myoho-renge-kyo è il titolo in cinese del Sutra del Loto, ma il Daishonin fu il primo a identificarlo come l'essenza del sutra stesso, il nome del "vero aspetto di tutti i fenomeni" al quale il Budda si era illuminato. «Myo è il nome dato alla misteriosa natura della vita e ho quello attribuito alle sue manifestazioni. Renge, che significa fiore di loto, simboleggia la meraviglia e il mistero di questa Legge» (Ibidem, 4). Comprendere che la nostra vita, in ogni istante, è myo, continua Nichiren, «è il mistico kyo, o sutra». Il passo successivo fu di istituire la pratica del Daimoku (che significa recitare il titolo o essenza di un sutra) facendo precedere alla verità universale di Myoho-renge-kyo la parola nam (una variante fonetica di namu), che significa "dedicare la propria vita a". Secondo il Daishonin, recitare ad alta voce Nam-myoho-renge-kyo rappresenta dunque la determinazione e il voto di dedicare la propria vita alla verità della Legge fondamentale di Myoho-renge-kyo, cioè di vivere basandosi su di essa. La natura di Budda dell'universo Spiega Nichiren Daishonin: «Quando veneriamo Myoho-renge-kyo che è nella nostra vita come oggetto di culto, la natura di Budda che è in noi viene richiamata dalla nostra recitazione di Nam-myoho-renge-kyo e si manifesta. Questo si intende per "Budda". Per fare un esempio, quando un uccello in gabbia canta, gli uccelli che volano liberi nel cielo sono richiamati e si radunano intorno a lui. E quando gli uccelli che volano nel cielo si radunano, l'uccello in gabbia cerca di uscir fuori» (Come coloro che inizialmente aspirano alla via..., RSND, 1, 789; cfr. SND, 8, 34). Quando la nostra voce recita Nam-myoho-renge-kyo collega la nostra vita con la Legge mistica che pervade tutti i fenomeni dei tremila regni, e ha il potere di richiamare la natura di Budda presente in tutti gli esseri viventi. «Perciò - scrive Nichiren - quando recitiamo una volta Myoho-renge-kyo, con questo singolo suono richiamiamo e manifestiamo la natura di Budda [...] di tutte le esistenze, [...] di tutte le divinità [...] il sole, la luna e le miriadi di stelle, [...] di tutti gli abitanti dell'inferno, degli spiriti affamati, animali, asura, esseri umani e celesti e di tutti gli altri esseri viventi. Questo è un beneficio immenso, incalcolabile» (Ibidem). Illusione e Illuminazione La pratica istituita dal Daishonin non contempla il culto di una divinità esterna all'essere umano, ma fornisce il mezzo concreto per mettere in grado ogni persona di manifestare la propria natura illuminata così com'è, nell'esistenza presente. Non si tratta quindi di raggiungere l'Illuminazione in un lontano futuro, ma di intraprendere una lotta interiore costante, attimo dopo attimo, fra le due alternative di rivelare la nostra innata natura illuminata oppure farsi dominare dall'oscurità fondamentale e dall'illusione: «Una mente annebbiata dalle illusioni derivate dall'oscurità innata è come uno specchio appannato che però, una volta lucidato, sicuramente diverrà chiaro e rifletterà la natura essenziale di tutti i fenomeni e il vero aspetto della realtà. Risveglia in te una profonda fede e lucida con cura il tuo specchio notte e giorno. Come dovresti lucidarlo? Solo recitando Nam-myoho-renge-kyo» (Il conseguimento della Buddità in questa esistenza, RSND, 1, 4; cfr. SND, 4, 5). Questo sforzo costante di perfezionare la nostra vita costituisce il nucleo essenziale della pratica buddista insegnata dal Daishonin. Per spiegare questo punto il presidente Ikeda distingue due differenti aspetti del Daimoku: il Daimoku della fede e il Daimoku della pratica. «Il primo riguarda l'aspetto spirituale della nostra pratica e consiste essenzialmente nella battaglia che ha luogo nel nostro cuore per contrastare la nostra condizione interiore illusa, od oscurità. È una lotta contro le forze negativee distruttive interiori per aprire un varco nell'oscurità che avvolge la natura di Budda e far emergere la condizione vitale di Buddità grazie al potere della fede. Il Daimoku della pratica riguarda invece l'azione specifica di recitare Nam-myoho-renge-kyo e di insegnarlo agli altri, gli sforzi che compiamo, con le parole e con le azioni, per la nostra felicità e per quella degli altri, che sono la dimostrazione tangibile della nostra battaglia interiore contro l'illusione e la negatività interne» (Buddismo e società, n. 119, p. 15). Non cercare mai la Legge al di fuori di te Infine, l'avvertimento più importante del Daishonin rispetto all'ottenimento dell'Illuminazione mediante la recitazione di Nam-myoho-renge-kyo riguarda il fatto che non dobbiamo mai considerare la Legge come qualcosa di esterno a noi perché, in tal caso, regrediremmo a quella divisione fra Budda e persone comuni che si trova negli insegnamenti precedenti al Sutra del Loto. «Tuttavia, se reciti e credi in Myoho-renge-kyo ma pensi che la Legge sia al di fuori di te stai abbracciando non la Legge mistica ma un insegnamento inferiore» ammonisce il Daishonin (RSND, 1, 3; cfr. SND, 4, 4). "Insegnamenti inferiori" sono quelli che non conducono all'Illuminazione, neanche praticando vita dopo vita per l'eternità. Raggiungere la Buddità in questa esistenza sarebbe dunque impossibile: «Perciò, quando invochi myoho e reciti renge devi sforzarti di credere profondamente che Myoho-renge-kyo è la tua vita stessa» (Ibidem). Ricercare la Legge mistica al di fuori di noi equivale a evadere dalla responsabilità della nostra vita. Per esempio, se recitiamo Daimoku ma ci lamentiamo o accusiamo sempre gli altri o il nostro ambiente per ciò che ci accade, stiamo evitando la sfida di affrontare la nostra oscurità interiore, e così facendo ricerchiamo l'Illuminazione al di fuori di noi. Il Daishonin spiega che non possiamo raggiungere l'Illuminazione senza un cambiamento nella nostra vita, al livello del nostro cuore o mente. Per quanto difficile possa apparire la circostanza che ci troviamo ad affrontare, essa non è che un riflesso della nostra vita interiore. Solo cambiando noi stessi a un livello più profondo possiamo iniziare a migliorare la nostra situazione. Josei Toda soleva dire: «Dovete essere pienamente convinti che Nam-myoho-renge-kyo è la vostra vita stessa!»; e poi: «Propagare la Legge mistica nell'Ultimo giorno significa credere fermamente che la vostra vita non è altro che Nam-myoyho-renge-kyo!». Ognuno ha dentro di sé il potere di cambiare, e quando comprendiamo questa verità possiamo fare emergere tale potere in qualunque luogo, momento o situazione. Qualsiasi ostacolo incontriamo nel corso della nostra pratica non dovremmo mai arretrare di un solo passo, non dovremmo esserne spaventati o sorpresi. È importante coltivare nel cuore una profonda fiducia nel fatto che il potere della Legge mistica, Myoho-renge-kyo, può trionfare su tutto. (SITO I.B.I.S.G.)

martedì 15 ottobre 2013

LA DURATA DELLA VITA E IL VOTO DEL BODHISATTVA

La tradizione Buddista offre, in linea di massima, due prospettive per comprendere il concetto di durata della vita. Da un certo punto di vista tutto, dalla nascita alla morte, viene determinato dal karma, cioè dagli effetti delle cause poste nell’esistenze passate e in quella presente. Ne consegue che se una vita virtuosa crea le condizioni per rinascere in circostanze favorevoli e godere di una vita lunga e felice, azioni distruttive o dannose diminuiscono la vitalità, abbreviando il tempo in cui un essere umano può godere della vita. Molte scuole buddiste perseguono il fine di purificarsi dal karma per sfuggire al ciclo di nascita e morte, perché la nascita in questo mondo impuro è considerata di per sé una forma di sofferenza. Secondo un altro punto di vista, la vera gioia non consiste semplicemente nell’essere in grado di evitare o sfuggire alle sofferenze, bensì nell’aiutare gli altri a liberarsi dalle proprie. In altre parole, il valore più grande nella vita si trova nel desiderio di vivere e adoperarsi per il bene degli altri. Il Buddismo chiama questo desiderio “il voto del Bodhisattva”, ed è questa la motivazione che determina il corso e la natura stessa di una vita. Il voto del Bodhisattva può essere descritto come l’impulso originale della vita. La pratica Buddista ci consente di “ricordare” questo voto e di imprimerlo nella nostra vita ancor più profondamente. Il sedicesimo capitolo del Sutra del Loto “Durata della vita”, alcuni brani del quale vengono recitati ogni giorno dai membri della Soka Gakkai di tutto il mondo, chiarisce come la natura di Budda – la legge universale o dharma alla quale il Budda si risvegliò – sia inerente a tutti gli esseri viventi. Questa natura di Budda è l’essenza della vita stessa e risvegliarsi ad essa vuol dire risvegliarsi alla natura eterna della vita. In quest’ottica, la nostra essenza originale è pura e incontaminata, ma noi assumiamo consapevolmente un karma negativo scegliendo di nascere in circostanze difficili. Così, affrontando e superando svariate prove sia sul piano fisico sia su quello psicologico, i bodhisattva riescono a dare speranza agli altri esseri umani. Mostrando la prova del potere intrinseco di superare tali difficoltà, essi aprono una strada che anche altri possono seguire. Proprio per questo, saranno in grado di offrire un reale sostegno a chi si trova in difficoltà simili alle loro. Così, in ogni esistenza, i bodhisattva si risvegliamo nuovamente al loro voto originale e abbracciano gioiosamente qualunque prova si presenti. Grazie a questa consapevolezza, la vita si trasforma da ciclo di sofferenza in missione. Attraverso tale consapevolezza, persino una vita breve può creare un valore grande e duraturo nella vita delle persone con le quali è interconnessa. Per esempio, la morte precoce di un bambino può ispirare i genitori a riflettere profondamente, e infine imprimere un significato più profondo alla loro esistenza. Il valore di una vita, quindi, non dipende semplicemente dalla sua durata temporale, ma dall'impegno rivolto alla propria e alla felicità degli altri. Piuttosto che un semplice convincimento intellettuale, questo risveglio alla natura eterna della nostra vita può essere percepito come un senso di fiducia profonda, con cui affrontiamo le sfide che inevitabilmente e costantemente si presentano. Tale consapevolezza non ci solleva dalla difficile realtà di vita e morte, ma permette di affrontarla con coraggio e fiducia sempre nuovi. Come insegna Nichiren Daishonin: saremo in grado di ripetere il ciclo di vita e morte sul terreno sicuro della nostra intrinseca natura illuminata. Credere nella natura eterna dell'esistenza non vuol dire che la nostra esistenza presente perda di significato, al contrario il Buddismo la considera estremamente unica e preziosa e insegna che dobbiamo sforzarci di vivere il più a lungo possibile. Ogni nuovo giorno deve rappresentare un’opportunità per contribuire alla società e vivere in modo nobile. Ed è proprio quando ci dedichiamo a questo ideale che possiamo conferire dignità al nostro essere “umani”, allungare la durata della vita e godere dell’esistenza più soddisfacente e significativa possibile. (dalla rivista SGI Quarterly Ottobre 2012)

martedì 8 ottobre 2013

SANGE

Si può fare sange prima, poi si recita Daimoku oppure durante le preghiere silenziose (esattamente la 4° preghiera silenziosa) quando fai Gongyo. RICONOSCENZA DAL PROFONDO DEL CUORE * per avere incontrato il Gohonzon * per essere capace di cambiare il mio karma * per essere vivo in questo momento * per tutte le persone che mi circondano * per tutte le cose che sono insegnamento per me REALIZZAZIONE PERSONALE * sii consapevole che per ogni causa esterna c'è prima una causa interna * sii consapevole che per ogni rabbia, frustrazione, colpa, irritazione e situazione che ti capita la responsabilità è tua * il tuo karma ha fatto sì che succedesse e che loro si comportassero così: cambia il veleno in medicina * sii cosciente dei tuoi "pasticcii" interiori che hanno provocato tale esperienza in te * tu soltanto sei responsabile di alzare il tuo stato vitale CHIEDERE SCUSA COL CUORE * per le continue offese alla legge * prega il Gohonzon di non lasciartelo fare più * recita altruisticamente per il benessere delle persone e chiedi al Gohonzon: cosa posso fare per migliorare la situazione ? DETERMINAZIONE * impegnati di più per Kosen Rufu * crea valore nell'ambiente in cui vivi, famigliare, lavorativo e nell'attività buddista * soltanto dopo aver recitato daimoku per quanto detto sopra, recita per i tuoi desideri e aspirazioni, per cosa vuoi cambiare o realizzare nella tua vita.

mercoledì 2 ottobre 2013

CHI E' UN BUDDA

Nell’immaginario collettivo il termine “Budda” evoca spesso l’immagine di un essere sovrumano, sereno, lontano dalle cose terrene, che – attraverso la meditazione – è entrato nello stato di “nirvana”, una condizione che gli permetterà di fuggire dalle continue sofferenze del mondo, frutto di illusioni e desideri umani. Questa immagine non riflette la vera realtà della vita di Shakyamuni, il fondatore del Buddismo che visse in India circa 2500 anni fa. Egli fu un essere umano dotato di profonda compassione che aveva rifiutato gli eccessi dell’ascetismo e dell’attaccamento ai desideri, che aveva costanti contatti con le persone e che voleva che tutti condividessero la verità alla quale si era illuminato. Il significato di “Budda” è “Illuminato” (letteralmente in sanscrito “risvegliato”), o “colui che è illuminato alla realtà ultima”. Con una certa approssimazione possiamo definire Illuminazione come la condizione di completa consapevolezza e saggezza, attraverso cui la verità profonda della vita nella sua complessità può essere completamente compresa e apprezzata. Qualsiasi essere umano risvegliato a essa può essere chiamato Budda. Molte scuole buddiste, però, hanno insegnato che si può arrivare all’Illuminazione solo dopo un difficile e straordinariamente lungo processo condotto vita dopo vita. Al contrario, il Sutra del Loto – considerato l’ultimo e più alto insegnamento di Shakyamuni – spiega che la Buddità è già potenzialmente presente in tutte le vite. Questa scrittura sostiene la più assoluta uguaglianza tra gli esseri umani, sottolineando che persino nella vita di una persona in apparenza dominata da numerosi aspetti negativi esiste il gioiello grezzo della natura di Budda. Questa non ci è concessa da nessuno né esiste qualcuno che possa giudicare se la “meritiamo” o meno. Come l’oro nascosto in una borsa sporca, o i fiori del loto che sbocciano da uno stagno fangoso, dobbiamo prima di tutto credere nell’esistenza della nostra natura di Budda, quindi risvegliarla e svilupparla, o – per usare un termine del Daishonin “lucidarla”. Nel Buddismo di Nichiren questo processo si realizza attraverso la fede e la recitazione di Nam-myoho-renge-kyo, la Legge mistica contenuta nel Sutra del Loto. La Buddità, però, non è una condizione statica alla quale si arriva e dove ci si può adagiare una volta per sempre, ma è un’esperienza dinamica: un percorso caratterizzato da continuo sviluppo e scoperta. Man mano che questa condizione viene rafforzata si diventa sempre meno governati dall’egoismo, dalla collera e dalla stupidità (i “tre veleni”) e aumenta la capacità di cambiare completamente se stessi e uscire indenni anche dalle peggiori tempeste. Quando siamo illuminati alla vera e immutabile natura della vita universale possiamo cavalcare gioiosamente le onde delle difficoltà, creando valore a partire da qualsiasi situazione. In questo modo fiorisce il nostro “vero io” e riusciamo a trovare dentro di noi infinite riserve di coraggio, compassione, saggezza e forza vitale. Ci accorgiamo di diventare più attivi e sentiamo crescere una profonda libertà interiore. Inoltre, sperimentando un sentimento di crescente unione con l’universo, svanisce quel senso d’isolamento e alienazione esistenziale che provoca sofferenza. Diminuisce il nostro attaccamento al “piccolo io” egoistico e alle differenze, e si sviluppa sempre più la consapevolezza dei profondi legami reciproci con tutte le altre forme di vita. Gradualmente la nostra esistenza si apre agli altri, e cominciamo a desiderare anche la loro felicità. È facile credere che tutti possediamo gli stati più bassi descritti negli insegnamenti buddisti (Inferno, Avidità, Animalità, Collera), ma è molto più difficile credere che possediamo la Buddità. La lotta per sviluppare e rafforzare sempre più questo stato nella nostra vita comporta sempre dei grandi risultati: scrive Daisaku Ikeda: «[La Buddità] è la gioia delle gioie. Nascita, vecchiaia, malattia e morte cessano di essere sofferenze, diventando parte della gioia di vivere. La luce della saggezza illumina l’intero universo, respingendo l’innata oscurità della vita. Lo spazio vitale del Budda si unisce e si fonde con l’universo. Il nostro io diventa l’universo stesso, e in un singolo istante il flusso vitale si espande fino ad abbracciare tutto ciò che è passato e tutto ciò che sarà in futuro. In ogni momento del presente, l’eterna forza vitale dell’universo si riversa come una gigantesca fonte di energia». (SITO I.B.I.S.G)

martedì 1 ottobre 2013

LA SIMULTANEITA' DI CAUSA ED EFFETTO

Il Buddismo – in generale – insegna che la legge di causa ed effetto sottende il funzionamento di tutti i fenomeni. Pensieri, parole e azioni positive creano effetti positivi e portano alla felicità. D’altro canto pensieri, parole e azioni negative, ovvero tutto ciò che in qualche modo offende la dignità della vita, conducono all’infelicità. Questo – in estrema sintesi – è il principio generale del karma. Negli insegnamenti buddisti precedenti al Sutra del Loto, la pratica religiosa è vista come un percorso di cambiamento graduale. Partendo da una condizione fondamentalmente imperfetta, il comune mortale – attraverso sforzi diligenti per accumulare cause positive ed evitare quelle negative – compie un processo di trasformazione della propria vita indirizzandola verso uno stato di perfezione assoluta: la Buddità. Nichiren Daishonin, partendo da quanto viene rivelato nel Sutra del Loto, insegna che il conseguimento della Buddità è invece governato da una causalità più profonda che offre una visione radicalmente diversa dell’essere umano e del conseguimento della Buddità. In tale prospettiva, illusione e Illuminazione – il comune mortale e il Budda – sono due manifestazioni della vita, che di per sé è neutra. Anche se la condizione umana “di base” è intrisa di illusione, manifestare la Buddità non richiede un mutamento fondamentale di tale natura; in effetti la convinzione stessa che la Buddità sia in qualche modo lontana dalla realtà quotidiana è di per sé un’illusione. La differenza fra gli insegnamenti precedenti e quelli successivi al Sutra del Loto può essere chiarita ulteriormente grazie alla teoria dei Dieci mondi. Questo principio descrive il nostro stato vitale interiore in ogni istante definendolo in base a uno dei dieci mondi, da quello pieno di sofferenza dell’Inferno a quello pieno di gioia della Buddità; si può passare da un mondo a un altro a seconda della direzione che noi stessi imprimiamo alla nostra esistenza e in base a come rispondiamo agli stimoli dell’ambiente. Negli insegnamenti predicati da Shakyamuni prima del Sutra del Loto, i comuni mortali portano avanti la loro pratica nei nove mondi (causa) e alla fine ottengono la Buddità (effetto). I nove mondi spariscono per essere sostituiti dal mondo di Buddità. Il Sutra del Loto, invece, chiarisce che la Buddità e i nove mondi sono perfettamente inerenti alla vita in qualsiasi momento, e che il mondo di Buddità si manifesta attraverso la fede e la pratica buddista. La differenza fra questi due punti di vista si può illustrare attraverso un’analogia con i video game. Nella visione più “antica” del processo di Illuminazione è come se il protagonista del video game (il comune mortale), attraverso i vari stadi di avanzamento del gioco, accumulasse sempre più poteri e capacità. Nell’ottica del Sutra del Loto, al contrario, il “giocatore” è già in possesso, sin dall’inizio, di tutti i poteri possibili: ha soltanto bisogno di un mezzo per dischiuderli e dispiegarli. La pratica del Buddismo di Nichiren Daishonin permette proprio questo, di manifestare la Buddità qui e ora, nella vita quotidiana. In quest’ottica, la recitazione di Nam-myoho-renge-kyo con fede nella propria inerente natura di Budda può essere paragonata all’utilizzo di un codice che permette di accedere al potenziale della Buddità. Facendo emergere la nostra natura illuminata – le cui caratteristiche sono: coraggio, compassione e forza vitale – ci “attrezziamo” per affrontare al meglio le sfide e i problemi della vita quotidiana, per trasformare la realtà e dare concretezza alla nostra Illuminazione. Sfide e problemi, in tal senso, diventano uno strumento per dimostrare la forza e la realtà della nostra natura illuminata e per ispirare gli altri a seguire lo stesso cammino. Il Buddismo ci permette di vivere sempre nel momento presente, sviluppando una grande fiducia la cui componente chiave è la fede nella natura illuminata inerente alla vita stessa. Questa prospettiva rivoluzionaria del conseguimento della Buddità si esprime nel concetto di simultaneità di causa ed effetto. I nove mondi, che rappresentano la causa, e il mondo di Buddità, che rappresenta l’effetto, esistono simultaneamente nelle nostre vite. Ciò è simboleggiato dal loto, che presenta contemporaneamente sia i fiori (metafora del comune mortale) sia i frutti (metafora della Buddità). Quando manifestiamo piena fiducia nella nostra innata natura di Budda e nella capacità di trasformare e trionfare su qualunque tipo di sofferenza, i problemi diventano sfide da accogliere, piuttosto che da evitare. Questo senso di fiducia e determinazione di fronte alle difficoltà diventa esso stesso una manifestazione della Buddità che, in accordo col principio di causa ed effetto, assicura la felicità nella vita. (sito I.B.I.S.G.)
(dalla rivista SGI Quarterly aprile 2013)